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Ho visto ieri sera THIS MUST BE THE PLACE, film di Paolo Sorrentino, con Sean Penn, Frances McDorman, Eva Ewson, Henry Dean Santon, David Byrne
Non lo ascrivo tra i capolavori ma è un film godibile con inquadrature molto belle. La costruzione delle scene mi è piaciuta tanto, forse più della storia. Una rockstar, Cheyenne, depressa ed avvilita dal suicidio di un paio dei suoi fan, vive negli esiti di un successo ormai finito: l'agiatezza ed il senso di vuoto e colpevolezza. Capita che il padre stia per morire, dall'altro capo del mondo, e che lo chiamino al capezzale. Cheyenne parte ma non arriva in tempo e così non riesce neanche a dare l'ultimo saluto al padre che non vedeva e sentiva da trent'anni. La morte fa riemergere sentimenti insopprimibili e sensi di colpa. Cheyenne così fa propria la ragione di vita del padre: rintracciare il criminale nazista che lo aveva umiliato in campo di concentramento. Con quella dissociazione dai ritmi e dagli stereotipi che gli viene dalla sua depressione, Cheyenne gira l'america seguendo flebilissime tracce. Sulla via che lo condurrà alla meta incrocia persone e varia umanità, sentimenti. Al culmine del viaggio troverà il criminale e lo sparo della pistola che ha comprato per uccidere sarà sostituito dallo scatto di una fotografia. La vendetta si consumerà con l'umiliazione del vecchio, isolato, nazista. Attraverso questo percorso Cheyenne troverà il modo per liberarsi della trappola del passato. Tornerà a casa, senza trucco.
Questo è il mio racconto del film.
Qui sotto una critica seria
da l'Espresso, Roberto Ecobar
A cinquanta e più anni Cheyenne (Sean Penn, bravissimo) è un bambino. Come un bambino guarda il mondo: con sorpresa, a occhi spalancati. Ma, ancora come un bambino, del mondo riesce a vedere quello che uno sguardo più disincantato non vedrebbe. Fra questi due estremi - fra un'ingenuità senza difesa e uno stupore incuriosito - si muove il protagonista di "This Must Be the Place" (Italia, Francia e Irlanda, 2011, 118').
Costruendo il proprio film attorno alla figura di una ex rockstar - il titolo viene da una canzone dei Talking Heads, e fra i personaggi c'è David Byrne nella parte di se stesso - Paolo Sorrentino sceglie di rischiare. Invece di ripetere in altra forma "Il divo" (2008), sfruttandone il successo, con l'aiuto del cosceneggiatore Umberto Contarello gira una storia difficile e ambiziosa. Cheyenne è raccontato (e recitato) senza preoccupazioni realistiche. Può darsi che nessuna rockstar, e anzi che nessun uomo gli somigli. Certo però nel suo viso sfatto e reso mostruoso da un trucco ostinato - come se per lui la vita si svolgesse ancora e sempre su un palco, al centro d'uno stadio - si vede e si "riconosce" un dolore profondo.
Giunto all'età in cui non si pensa più a quello che si farà, ma si fanno i conti con quello che si è fatto, Cheyenne è orfano del proprio passato. In particolare, non conosce (e forse non ama) suo padre, ebreo scampato allo sterminio. Alla sua morte ne eredita però il segreto e l'anima, ossia la ricerca durata più di cinquant'anni del suo carnefice nazista. E infatti, con il suo sguardo svagato ed esposto, la ex rockstar attraversa l'America sulle tracce labili di un vecchio tedesco che forse è già morto. Non è (solo) un film dedicato all'orrore del lager, "This Must Be the Place". Nelle sue immagini c'è anche una straordinaria simpatia per la molteplicità imprevedibile di quel che è umano: facce, storie, situazioni, follie, genialità, banalità. E c'è il bisogno profondo di Cheyenne: riconciliarsi. Riconciliarsi con la memoria del padre, in primo luogo. Poi, riconciliarsi con la sua vita trascorsa tutta "in superficie", appunto come su un palco nel centro di uno stadio. E infine riconciliarsi proprio con la vita, trovando il modo di viverla al di là d'ogni trucco ostinato e paradossale. Alla fine ce la fa, Cheyenne: sempre aperto come quello di un bambino, ora il suo sguardo chiaro è illuminato dal sorriso. E ce la fa anche Sorrentino, nonostante il rischio che s'è scelto. O meglio, per il coraggio con cui l'ha scelto.
A cinquanta e più anni Cheyenne (Sean Penn, bravissimo) è un bambino. Come un bambino guarda il mondo: con sorpresa, a occhi spalancati. Ma, ancora come un bambino, del mondo riesce a vedere quello che uno sguardo più disincantato non vedrebbe. Fra questi due estremi - fra un'ingenuità senza difesa e uno stupore incuriosito - si muove il protagonista di "This Must Be the Place" (Italia, Francia e Irlanda, 2011, 118').
Costruendo il proprio film attorno alla figura di una ex rockstar - il titolo viene da una canzone dei Talking Heads, e fra i personaggi c'è David Byrne nella parte di se stesso - Paolo Sorrentino sceglie di rischiare. Invece di ripetere in altra forma "Il divo" (2008), sfruttandone il successo, con l'aiuto del cosceneggiatore Umberto Contarello gira una storia difficile e ambiziosa. Cheyenne è raccontato (e recitato) senza preoccupazioni realistiche. Può darsi che nessuna rockstar, e anzi che nessun uomo gli somigli. Certo però nel suo viso sfatto e reso mostruoso da un trucco ostinato - come se per lui la vita si svolgesse ancora e sempre su un palco, al centro d'uno stadio - si vede e si "riconosce" un dolore profondo.
Giunto all'età in cui non si pensa più a quello che si farà, ma si fanno i conti con quello che si è fatto, Cheyenne è orfano del proprio passato. In particolare, non conosce (e forse non ama) suo padre, ebreo scampato allo sterminio. Alla sua morte ne eredita però il segreto e l'anima, ossia la ricerca durata più di cinquant'anni del suo carnefice nazista. E infatti, con il suo sguardo svagato ed esposto, la ex rockstar attraversa l'America sulle tracce labili di un vecchio tedesco che forse è già morto. Non è (solo) un film dedicato all'orrore del lager, "This Must Be the Place". Nelle sue immagini c'è anche una straordinaria simpatia per la molteplicità imprevedibile di quel che è umano: facce, storie, situazioni, follie, genialità, banalità. E c'è il bisogno profondo di Cheyenne: riconciliarsi. Riconciliarsi con la memoria del padre, in primo luogo. Poi, riconciliarsi con la sua vita trascorsa tutta "in superficie", appunto come su un palco nel centro di uno stadio. E infine riconciliarsi proprio con la vita, trovando il modo di viverla al di là d'ogni trucco ostinato e paradossale. Alla fine ce la fa, Cheyenne: sempre aperto come quello di un bambino, ora il suo sguardo chiaro è illuminato dal sorriso. E ce la fa anche Sorrentino, nonostante il rischio che s'è scelto. O meglio, per il coraggio con cui l'ha scelto.